- In una fase così prolungata e inedita di crisi multidimensionale (economica, sociale, ma anche ecologica e climatica) in che modo la green economy può rappresentare una leva per una ripresa ed una crescita sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale e cosa serve perché possa affermarsi in modo diffuso e contribuire a generare occupazione?
Tony Federico, Presidente Comitato Tecnico Scientifico Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile:
L’Italia è colpita da una crisi molteplice, forse la più grave della sua storia moderna, caratterizzata da una prolungata recessione economica, da un peggioramento delle condizioni sociali e dell’equità distributiva della ricchezza, da un livello elevato di disoccupazione e da un debito pubblico fra i più alti d’Europa. La crisi economica non è affatto congiunturale, ma ha radici profonde. Si intreccia con una crisi climatica globale di una gravità senza precedenti che non può essere trascurata perché sta già producendo preoccupanti anomalie climatiche e gravi danni all’ambiente ed al territorio e perché costituisce una ancor peggiore minaccia per il nostro futuro.
La natura di questa crisi multifattoriale è al contempo locale e globale e non può quindi trovare una soluzione soltanto su scala nazionale. La proposta della Green economy è di scala mondiale, consolidata da UN, UNEP, EU, OECD. La consacrazione definitiva è stata data al Summit di Rio del 2012 (Rio+20). Comporta un cambiamento di modello economico sostanziale ed irreversibile e una nuova forma di capitalismo capace di puntare su altro che non sull’espansione dei consumi materiali. E una diversa assunzione di responsabilità da parte dei governi e delle imprese. I primi devono creare le condizioni abilitanti, oltreché rendere sostenibili le loro pratiche interne eliminando inefficienze, corruzione, illegalità, sprechi, la pratica della disinformazione e sviluppare leggi, regolamenti sostenibili e pratiche promozionali come il Green procurement, etc. Le seconde, in una chiave di ritrovata consapevolezza e responsabilità sociale d’impresa, devono orientare investimenti, ricerca, tecnologia e lavorazioni alla produzione di beni e servizi per quanto possibile dematerializzati e sostenibili e alla trasformazione dei processi produttivi in cicli low-carbon, a basso inquinamento, alta efficienza, ridotto ricorso all’uso della materia e dell’energia e ridotta produzione di scarti, rifiuti ed emissioni.
Un’economia verde pienamente realizzata incontra la domanda dei mercati e assicura quindi un rilancio della crescita del valore aggiunto tracciando l’unica via praticabile per uscire dalla crisi. L’occupazione ne beneficerà. Stiamo facendo studi molto accurati su questa questione. L’aumento dell’efficienza nei settori della produzione competitiva e della PA comporterà perdite di posti di lavoro. La conversione della produzione e dei processi industriali darà luogo nel breve termine a sofferenza sociale per effetto della necessità di convertire gli skill, ed alcuni verranno espulsi dal ciclo produttivo. Ma l’irrompere di nuove tecnologie, dei servizi per l’applicazione delle stesse (si veda il settore di servizi ai cittadini e all’ambiente, dell’energia diffusa, delle costruzioni, dell’agricoltura biologica, del trasporto sostenibile, del trattamento dei rifiuti, del riciclo, della formazione permanente) si calcola che immetterà un numero di posti di lavoro molto superiore a quelli persi o convertiti, assicurando che l’occupazione riprenda.
Anche dal punto di vista dei cittadini, una volta chiamati cittadini-consumatori, la Green economy implica nuovi comportamenti. Più sobrietà, meno sprechi, meno consumi inutili, più riuso dei beni, mobilità più dolce e infine, nell’auspicata ripresa del reddito disponibile, una scelta che favorisca gli investimenti (scuola, cultura, formazione, salute, ambiente, attività no-profit e lo stesso risparmio, che in un’economia sana andrà a favorire l’imprenditoria attraverso i depositi bancari e il rilancio del credito) rispetto ai consumi che finora l’hanno fatta da padroni.
- Va vista come un settore o un modo per ripensare radicalmente la crescita economica?
La Green economy ha a che fare con i cosiddetti servizi per l’ambiente solo perché i secondi, che incidono per pochi percento del valore aggiunto, si suppone che siano classificabili come green. Paradossalmente, i servizi ambientali possono talvolta essere prestati in modo non sostenibile, come può accadere nel trattamento dei rifiuti, nella termovalorizzazione, nei lavori agricoli, nella manutenzione del territorio, etc.
Green è invece un paradigma nuovo, a valle di una trasformazione che abbiamo detto irreversibile, che cambia i modi di produrre e consumare, di fruire dei servizi ecosistemici, di trattare la biodiversità, di praticare l’accoglienza e i rapporti tra nazioni e tra comunità diverse e perfino i metodi di partecipazione alle decisioni, di diffusione delle informazioni, di scelta delle rappresentanze politiche. La Green economy non è dunque una prospettiva di irragionevole ampliamento del settore dell’economia comunemente chiamato “verde”. È invece la cancellazione programmata dell’economia brown, quella corrente che fa la ricchezza attuale delle economie a cui la Greeen economy aggiunge tutte le attività necessarie per conservare e sviluppare il capitale naturale, umano e sociale. In tempi medio-lunghi si faranno poi i conti per verificare se la Green economy ci avrà riportato entro i limiti del pianeta, circostanza che richiede anzitutto che sia vinta la battaglia contro il cambiamento climatico, essenziale per mettere alla prova la Green economy assieme al rilancio dell’occupazione.
- Quali skills, anche nuovi e di alto profilo, sarà sempre più necessario formare o riconvertire per affrontare i problemi posti dalla necessità di ridurre le emissioni di CO2 e quindi dalle conseguenze del cambiamento climatico (consumo di suolo e impermeabilizzazione, rischi legati alla fragilità del territorio, ecc.) e sfruttare al contempo il potenziale occupazionale della crescita sostenibile?
La chiave della Green economy è l’eco-innovazione che promuove sistemi di produzione e consumo basati su un utilizzo sostenibile delle risorse e una riduzione degli impatti negativi sull’ambiente ed è un fattore determinante per la competitività delle imprese nell’attuale mercato globale. Vanno incentivati i profili professionali e le attività di capacitazione utili per favorire la diffusione di tecnologie realmente innovative e va supportata la diffusione nelle imprese dell’innovazione tecnologica di prodotto e di processo finalizzata al raggiungimento di elevate qualità ambientali. Il punto debole nel nostro paese è qui la ricerca scientifica interna alle aziende più che quella pubblica. Pur nella persistenza della povertà della nostra scuola media e delle nostre università non sembra inoltre che la formazione dei nostri giovani non sia all’altezza della situazione. Le imprese italiane non investono in innovazione o perché troppo piccole o perché opportunisticamente in attesa di comprare i brevetti sul mercato internazionale. La ricerca e l’innovazione non fanno certo tutta l’occupazione che serve, ma senza innovazione la macchina della competitività si ferma e anche l’economia. Fa inoltre un certo effetto vedere giovani laureati e masterizzati con una cuffia in testa nei call-center.
Dobbiamo dedicare attenzione allo sviluppo di partenariati pubblico-privati fra le università, gli enti di ricerca e le imprese per il sostegno di progetti di eco-innovazione, capaci di coniugare sostenibilità e competitività. Aziende, centri di ricerca, distretti, reti d’impresa, sistemi territoriali, istituzioni e organizzazioni sociali possono fungere da soggetti attivi di questi partenariati per l’eco-innovazione. Va sviluppata l’economia della conoscenza, aumentando gli investimenti per la ricerca e la formazione ai vari livelli, per preparare nuove competenze e professionalità sia per i settori strategici di nuova economia, sia per riqualificare figure professionali che operano in settori e comparti tradizionali brown del sistema produttivo italiano, interessati dai processi di riconversione della Green economy.
Crediamo sia necessario un green New Deal, un nuovo patto per lo sviluppo in pieno stile roosveltiano, che assume fra i suoi obiettivi prioritari un piano per la piena e buona occupazione giovanile e femminile in tutti i settori che abbiamo individuato far parte della Green economy: diffusione dell’eco-innovazione, risparmio energetico, sviluppo delle rinnovabili, riciclo della materia, tutela e valorizzazione del patrimonio naturale e culturale, riqualificazione delle città, attività agricole e quelle per una mobilità sostenibile.
L’occupazione dei giovani può far ripartire tutto l’assetto occupazionale e va favorita con misure di accesso agevolato al credito e agevolazioni fiscali in grado di ridurre il costo del lavoro senza abbattere le retribuzioni. Occorre favorire lo startup di nuove imprese green realizzate da giovani con semplificazioni procedurali e autorizzative e assicurando agevolazioni economiche. Non è più accettabile un ricorso esteso al precariato dei giovani: occorre promuovere un accordo con le imprese, compensato con agevolazioni fiscali e contributive per un certo numero di anni affinché, dopo un periodo limitato di apprendimento e formazione, i giovani vanno assunti con contratto a tempo indeterminato. Il piano per la piena occupazione deve prevedere anche lo sblocco delle assunzioni nel settore pubblico di giovani, con concorsi pubblici, contingenti stabiliti coperti con stanziamenti adeguati per la ricerca, per attività strategiche di manutenzione del territorio, di tutela dell’ambiente e del patrimonio artistico, culturale e storico, un’altra delle ricchezze ineguagliabili di questo paese che non sembriamo più in grado di difendere né come valore, né come driver dello sviluppo.